FAN HO

Il Cartier Bresson d'oriente

 “La fotografia deve essere inquietante e deve valer la pena di esser ricordata.”

Non ho potuto fare a meno di iniziare quest’articolo con una citazione che ogni fotografo dovrebbe, a mio modesto parere, tenere sempre fissa nella mente, un po come il pennello tra le mani del pittore, pronto a scivolare su di una tela bianca per renderla un attimo dopo in modo indelebile, un’altra cosa.
L’autore di questa citazione e FAN HO un fotografo e regista nato a Shangai nel 1931, che tanto ha dato alla fotografia contemporanea, collezionando riconoscimenti in ogni parte del mondo.
La sua opera inizia a prendere forma ad Honk Kong, dopo che nel 1948 vi si trasferisce con tutta la famiglia. In una citta in pieno tumulto post bellico.

Inizia a fotografare con la Rolleiflex dello zio. Intorno a lui, figlio di una famiglia facoltosa, imperversava la fame e l’insofferenza di una popolazione composta per buona parte di rifugiati in cerca di un’opportunità. Ma quasi come se fosse un paradosso la sua fotografia ci mostra tutt’altro: gli ambienti appaiono silenziosi, con una discreta presenza umana, un dipinto di luci ed ombre, spesso arricchito da una presenza onirica interpretata dal fumo di asfittiche stradine o dalla foschia di un clima verosimilmente tropicale.
La forza delle sue immagini porta istintivamente chi le guarda a trovare collegamenti con un altro mostro sacro della fotografia: Henry Cartier Bresson. Questa è solo un’impressione iniziale, tra i due le cose in comune, oltre al bianco e nero, sono la forza emotiva di una realta’ imbrigliata nel fotogramma, solo che mentre Bresson “pesca” da un fiume in movimento, Fan Ho sembra seduto in riva ad un lago, paziente, nell’ attendere che ogni cosa sullo specchio d’acqua lasci il posto ad una superfice liscia e cristallizzata, plasmata con la quiete dell’equilibrio.
Le sue foto sembrano il frutto di uno storeling cinematografico: c’e’ sempre un sapore nostalgico nei suoi scatti, come lui stesso afferma “la strada e’ un teatro vivente”, in questo clima si sviluppa un attesa quasi spasmodica atta ad incastrare involontari attori, in un preciso istante tra luci e ombre.

Si avverte una tridimenzionalita’ che considerando i mezzi dell’epoca, lascia ben poco spazio all’analisi tecnica: il risultato e’ frutto di una visione che non puo’ essere spiegata, ma solo ammirata ed interpretata nel rispetto dell’autore. C’e’ tanto “sentire” in ogni sua foto, perche’ lui scattava prevalentemente in base alle sue sensazioni: una ricerca tratta dal risultato dell’incontro dei suoi sensi con cio’ che lo circonda. Per lui la macchina e’ solo un mezzo, il vero ingrediente segreto e la voglia quasi compulsiva di voler raccontare qualcosa che affiora dalla sua straordinaria sensibilità

L’ opera di Fan Ho oggi è collocata nel capitolo della “street photography” ma sono sicuro, che lui non ha mai pensato nemmeno per un attimo a definire la sua fotografia: e ‘stato sempre spinto da quella sana forza di chi vuole scoprire e mostrare, a prescindere da tutto il resto.

Si tende a strutturare, o a settorializzare ogni cosa nella nostra società, per dare la sensazione che tutti possono essere in grado di fare o di avere la medesima cosa se si seguono determinati parametri, ma dopo aver approfondito un po l’ epopea artistica di Fan Ho, credo che le sue immagini siano un chiaro invito, per chi si cimenta nella fotografia, a seguire di più’ l’unicità delle nostre sensazioni anziché’ i paletti della tecnologia e della manualistica.

Vi invito a fare un giro sul suo sito https://fanho-forgetmenot.com/index.html per me e’ stata una scoperta densa di emozioni nell’ammirare le sue opere. Voglio chiudere questa mia personale riflessione su Fan Ho, con le sue parole, nello stesso modo in cui l’ho iniziata: una forma di ringraziamento innescata da questa struggente bellezza, che mi ha spinto ad approfondire le mie conoscenze sui suoi lavori.

“Devi essere capace di cogliere l’attimo in cui. lo spirito, l’essenza, l’anima del soggetto si rivelano.       Se quell’attimo non arriva, devi aspettare la sensazione giusta”.

                                                                             Aniello Intartaglia

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